È comunque possibile parlare di linguaggio universale quando parliamo di immagini. Come se resistessimo alla dispersione del lemma comune, come se la torre di Babele non fosse mai stata costruita ed avessimo scelto, come umanità, un paradigma di sviluppo orizzontale. Che è un po’ quello che fa Juliette, con le sue strisce di ricordi, che l’anno scorso erano frame di una pellicola 35mm, tenute insieme in una griglia, in una composizione, e quest’anno sono esplosi in combinazioni diverse, proprio come parole che scoprono di potersi associare per la prima volta.
Ma il tema è sempre l’archetipo del ricordo, cioè non le proprie memorie sbiadite, ma una certa archeologia del sentimento. La ricostruzione paziente del proprio ‘lessico famigliare’.
E mi piace pensare che quando un artista conclude un’opera essa contenga in se’ tutti i possibili sviluppi successivi.
La storia dietro Wykofer, un “luogo” che è al tempo stesso memoria storica e familiare, isola reale e teatro di narrazione, è una storia articolata in cui si avvicendano un’Europa sull’orlo del disastro ( ahimè attualissimo), una casa che funziona da riparo, la grande inondazione del ’30, l’esodo verso la salvezza, un viaggio senza promessa di ritorno, e la ricerca malinconica delle proprie origini, dei caratteri che magicamente ci troviamo in dote, e che più o meno consapevoli, trasmettiamo a nostra volta ai nostri figli.